Per archivio si intende una raccolta organizzata e sistematica di informazioni fissate su un supporto e di diversa natura.
In secondo luogo, per estensione, con il termine archivio si designa anche l’ente che ha il compito istituzionale di tutelare e valorizzare un insieme di documenti e i locali destinati alla loro conservazione.
La prima definizione moderna di archivio risale alla fine del XIX secolo e fu formulata dal Manuale degli archivisti olandesi di Samuel Muller, Johann Adrian Feith e Robert Fruin, ove per archivio si intende
«Archivio è l’intero complesso degli scritti, disegni e stampe, ricevuti o redatti in qualità ufficiale da qualunque autorità o amministrazione, o da qualsiasi impiegato di queste, purché tali documenti, conformemente alla loro funzione, debbano rimanere presso la stessa autorità o amministrazione, o presso i suoi impiegati.»
Eugenio Casanova (1867-1951), considerato il padre dell’archivistica italiana, nel suo manuale Archivistica del 1928, riprese la definizione data dagli archivisti olandesi aggiungendo però l’elemento dell’ordine dei documenti come stabiliti dal soggetto produttore: «L’archivio è la raccolta ordinata degli atti di un ente o individuo, costituitasi durante lo svolgimento della sua attività e conservata per il conseguimento degli scopi politici, giuridici e culturali di quell’ente o individuo.»
Giorgio Cencetti, nel suo articolo L’archivio come “universitas rerum”del 1937, indicò un altro elemento essenziale per l’identificazione di un archivio, ovvero il vincolo archivistico:
«I singoli componenti di un archivio non solo provengono da un medesimo individuo, aggregato familiare o ente…ma poiché costituiscono niente altro che uno dei mezzi usati dall’ente o individuo per raggiungere i propri scopi, portano in loro stessi fin dall’origine il vincolo della destinazione comune, sintetizzato nell’adempimento dalle funzioni dell’ente o individuo medesimo.»
Dai primordi alla caduta dell’Impero Romano
Gli archivi, intesi come testimonianza dell’attività umana, sono sempre esistiti in quanto l’archivio serve all’uomo per la sua attività quotidiana. Le prime testimonianze di archivio risalgono all’epoca dei Sumeri (III millennio), a quando cioè risalgono i primi supporti stabili[N 1]. I Sumeri, infatti, si legarono in civiltà stabile, svilupparono la scrittura (scrittura cuneiforme, in uso dal 3500 a.C.) e avevano un bisogno di lasciare testimonianza delle loro attività quotidiane (come i commerci, esercizi contabili). Tra il 1976 e il 1977, una spedizione guidata da Paolo Matthiae riportò alla luce gli archivi regali di Ebla[4].
Al contrario, presso gli antichi greci e la civiltà romana i supporti utilizzati (tavole di cera e papiro) non permisero la conservazione degli archivi statali e privati per un lungo periodo: dei rotoli conservati al metroon di Atene o di quelli del Tabularium tardo-repubblicano non si è conservato assolutamente nulla, così come dell’archivio d’età Imperiale.
Il Medioevo
In seguito al crollo dell’Impero Romano d’Occidente e la confusione generata dagli sconvolgimenti socio-politici successivi, la documentazione prodotta durante l’Alto Medioevo è alquanto esigua: da un lato, furono prodotti pochi documenti (o se ne sono conservati pochi) da parte delle cancellerie dei regni romano-barbarici; dall’altro, i sovrani e anche le autorità ecclesiastiche locali (vescovi, abati) avevano l’abitudine di portare con sè la documentazione archivistica, delineando così la nozione di archivi itineranti, concezione che rimarrà in uso fino al XII secolo. Al contrario, un ruolo fondamentale per la conservazione dei documenti è stata la Chiesa: grazie ai monasteri, nei cui scriptoria operavano i monaci amanuensi dediti alla conservazione della memoria classica e alla produzione di Bibbie o Evangeliari, molta documentazione fu salvata dall’oblio, grazie anche all’imporsi, a partire dalla tarda antichità, dell’utilizzo della pergamena come materiale scrittorio.
Al contrario, con il Basso Medioevo (XI-XV secolo), la rinascita delle città e dei commerci produsse una rifioritura delle città e una maggiore laicizzazione, per quanto fosse possibile, della società: si vennero a creare così gli archivi comunali e quelli dei notai.
Gli archivi come “arsenali del potere”
Con l’inizio dell’età moderna e la formazione delle monarchie nazionali, gli archivi diventarono necessari ai fini dell’esercizio del potere e della consultazione dei documenti da parte dei sovrani. Gli archivi in quest’epoca furono definiti dei veri e propri “arsenali del potere” (o arsenal de l’autorité), cioè strumenti a disposizione del sovrano, e crescono in funzione dell’attività del governo[8]. Tra questi si ricordano principalmente l’Archivio generale di Castiglia, l’Archivio di corte a Vienna (oggi Archivio di Stato Austriaco), istituito da Maria Teresa col nome di Geheimes Hausarchiv (ossia Archivio di Corte), l’Archivio di Corte a Torino, oggi sede dell’Archivio di Stato di Torino e l’Archivio napoleonico di Parigi.
Inoltre, sul finire del XVIII secolo i nobili italiani godevano di una serie di prerogative che, però, dovevano essere dimostrate davanti al tribunale araldico: si sentì la necessità di creare degli archivi “nobiliari”, affidando l’opera di riordinamento agli archivisti[9].
A fianco degli archivi laici, si vennero a formare dal XVI secolo gli archivi ecclesiastici, in seguito alle disposizioni disciplinari emanate dal Concilio di Trento (1545-1563) che obbligavano i parroci a tenere i registri dello stato delle anime, così come dei battesimi, dei matrimoni e dei funerali. Agli inizi del XVII secolo, papa Paolo V (1605-1621) decise infatti di creare un archivio che raccogliesse le carte di governo dello Stato della Chiesa[10]. Si trattava del nucleo di quello che verrà chiamato successivamente Archivio Segreto Vaticano
Il XIX secolo
L’archivio come “memoria storica”
Nel corso dell’Ottocento, l’archivio da memoria di autodocumentazione (ovvero ha una funzione esclusivamente pragmatico-amministrativa per il soggetto produttore) diventa fonte della memoria collettiva: i documenti, quando smettono di funzionare per il soggetto che lo produce, assumono un’importanza storica agli occhi di altre persone, in primis gli studiosi, che non l’hanno prodotto. Oltre al granduca Pietro Leopoldo che creò nel 1778 il Museo Diplomatico di Firenze, si ricordano anche la creazione, nel 1790, dell’Archivio Nazionale francese ad opera dell’Assemblea Nazionale.
Gli ordinamenti degli archivi
Verso il finire del ‘700, vengono creati dei grandi depositi che perdono il collegamento con la cancelleria di provenienza, in seguito alla soppressione di enti religiosi o di magistrature civili. Il tutto è finalizzato in un’ottica razionale, finalizzata alla ricerca immediata di determinati atti da parte delle autorità pubbliche secondo la materia trattata. I documenti così ordinati secondo lo spirito illuminista (si pensi all’Encyclopèdie di Diderot e d’Alambert, ma anche ai testi di Pierre Camille Le Moine, Diplomatique pratique, 1765 e di De Chevrières, Le nouvel archiviste, 1775) trovarono un primo luogo di sviluppo a Vienna, e poi in Lombardia grazie all’archivista Ilario Corte prima e poi a Luca Peroni.
Nella seconda metà dell’Ottocento, però, vi fu una reazione nei confronti del metodo per materia. In Francia, su proposta dello storico Natalis de Wailly, il ministero degli Interni emanò una circolare (le Instructions del 24 aprile 1841) in cui si stabilisce il principio di provenienza o rispetto dei fondi[14]. Questo principio, già diffuso in Danimarca e nel Regno di Prussia, profondamente antitetico rispetto al precedente, fu accolto poi in Italia dal toscano Francesco Bonaini il quale estremizzò tale metodo dando origine al metodo storico, ossia alla ricostruzione storica del soggetto produttore e del fondo da esso creato per la migliore comprensione della struttura del fondo in questione. Si pose in tal modo la teorizzazione, in Italia, del moderno ordinamento archivistico.
Tra XX e XXI secolo
Gli archivi contemporanei e le sfide della conservazione digitale
L’imposizione del metodo storico e gli ordinamenti statali nei confronti degli istituti di conservazione hanno omologato la gestione archivistica in tutto il mondo. Negli anni più recenti sono tornati alla ribalta i problemi legati alla formazione, alla gestione e alla conservazione degli archivi, soprattutto riguardo all’introduzione di nuove tecnologie, che in futuro potrebbero rivoluzionare la consistenza degli archivi. Si tratta in particolare delle tecnologie informatiche e telematiche, che hanno reso impellente la revisione di metodologie ormai consolidate da decenni. L’uso delle nuove tecnologie, soprattutto dopo aver superato una prima fase di sperimentazione un po’ improvvisata all’inizio degli anni ottanta, si sta via via affinando sempre maggiormente, con procedimenti più meditati, consapevoli e raffinati, sostenuti anche dall’istituzione di appositi organismi statali (in Italia l’AgID, acronimo per l’Agenzia per l’Italia digitale), anche se restano da sciogliere i dubbi legati all’organizzazione dei documenti che non comprometta il vincolo e alla conservazione dei nuovi supporti digitali nel futuro: se un foglio di carta ha infatti dimostrato di poter essere conservato, tramite le opportune cautele, anche per secoli, per quanti anni sarà consultabile un supporto DVD o un disco rigido? Questi sono i nodi da sciogliere nel presente e nell’immediato futuro.
Supporti digitali per l’archiviazione dati: ecco la storia
Con la forte digitalizzazione vissuta negli ultimi anni sono stati sviluppati metodi sempre più efficaci per l’archiviazione di dati, necessari per poter archiviare e contenere in maniera sicura numerose cartelle elettroniche e, chiaramente, poterle recuperare con facilità.
La storia dei supporti digitali incomincia già nella seconda metà del secolo scorso e si evolve costantemente sino ad arrivare a metodi immateriali come il cloud storage.
Le schede perforate
Le schede performative vennero sviluppate agli albori della nascita dei sistemi informatici intorno agli anni ’40 del 1900 e consistevano in un complicato sistema di schede perforate immesse nei primissimi calcolatori elettromeccanici.
Nello specifico, permettevano di salvare i dati dell’ultima sessione di lavoro in modo tale da ripartire dal punto in cui si era lasciato il lavoro precedentemente.
Questi supporti digitali erano principalmente usati dalla macchina di Turing, padre dell’informatica, per conservare i dati.
Questi ultimi venivano registrati mediante perforazioni su un cartoncino.
La posizione dei fori sul foglio era in grado di segnalare la presenza dell’informazione.
Il nastro magnetico
Dieci anni più tardi il foglio performativo venne sostituito dal nastro magnetico composto da materiale plastico ricoperto da ossido magnetico che in una sola bobina era capace di conservare informazioni pari a 1920 schede perforate.
Il primo sistema di questo tipo venne utilizzato dall’UNIVAC, il primo computer commerciale realizzato dalla Eckert-Mauchly Computer Corporation.
L’hard disk
Qualche anno più tardi, precisamente nel 1956 venne creato il primo disco rigido della storia dei supporti informatici. Era composto da dischi ricoperti da materiale magnetico che venivano fatti girare a grande velocità.
La grande novità rispetto ai sistemi precedenti consisteva nella non sequenzialità delle informazioni. In questa maniera i dati potevano essere immagazzinati in qualsiasi ordine.
La capacità di archiviazione si aggirava intorno ai 5 megabyte, ovvero l’equivalente di 23 nastri magnetici.
La prima azienda a sviluppare gli hard disk fu la IBM che denomino inizialmente questo nuovo sistema salvataggio dati come fixed disk.
Il primo prototipo era costituito da 50 dischi del diametro di 60 centimetri circa
I floppy disk
Agli inizi degli anni ’70 del secolo scorso vennero lanciati sul mercato sempre dalla società IBM i floppy disk.
Essi erano costituiti da un mix di materiale plastico e magnetico che, però, ne pregiudicava le prestazioni, tendendo a sporcarsi facilmente.
Per risolvere questo problema, i floppy vennero ricoperti da una custodia di plastica.
L’evoluzione dei floppy fu costante negli anni andando da formati iniziali con una capacità di capienza di 80 kilobyte fino ai più avanzati che contavano una capacità di 1,44 megabyte.
I CD-Rom
Nel 1988 l’azienda Sony congiuntamente alla Philips iniziò a commercializzare i primi CD-Rom o Compact Disk-Ready-Only Memory.
La capacità di conservazione di dati poteva arrivare fino a 700 megabyte, equivalente a 486 floppy disk.
Lo sviluppo del CD-ROM ha rappresentato una tappa fondamentale per sviluppo e la diffusione di massa del multimediale, grazie alle sue elevate capacità di salvataggio dati che rendevano più facile la manipolazione di dati informatici.
Cosa che al floppy disk non riuscì così bene, dato che le sue capacità di memoria, inferiori ai 2 megabyte, risultavano insufficienti per lo sviluppo del multimediale.
I DVD
Anche se con caratteristiche fisiche simili ai CD-ROM, i DVD (digital versatile disc) che si diffusero intorno alla metà degli anni ’90 si differenziano dai primi principalmente per l’elevata capienza, pari a 4,7 gigabyte ovvero l’equivalente di 7 CD-ROM. La tecnica di salvataggio e lettura di dati risultava differente rispetto ai CD-ROM. Il primo DVD venne lanciato sul mercato nel 1995 grazie alla collaborazione di diverse aziende informatiche tra cui la Philips, la Sony, Matsushita, Hitachi, Warner, Toshiba, JVC, Thomson e Pioneer.
La chiavetta USB e la memoria flash
La prima chiavetta USB venne commercializzata dalla Trek Technology di Singapore nel 2000.
Il modello si chiamava Thumb Drive e la sua capacità di archiviazione era di 8 megabyte. Grazie alla loro praticità e alla facilità di utilizzo le penne USB diffusero rapidamente.
Questi supporti digitali si presentano dotati di una memoria flash e un’interfaccia Universal Serial Bus che le dota del meccanismo “plug-and-play”, utilizzabile su diversi dispositivi.
Diversamente dai DVD la chiavetta dà la possibilità di poter cancellare e trascrivere i dati liberamente.
Le più moderne hanno una capacità di memoria pari a quella di 140 DVD ed un peso nettamente inferiore.
Il cloud storage
La vera novità del nuovo millennio in tema di supporti digitali è rintracciabile nei sistemi di Cloud, termine inglese che rende bene la caratteristica di smaterializzazione di questo nuovo supporto.
Il Cloud archivia i dati direttamente su piattaforme online senza la necessita di un supporto fisico.
Questo sistema è stato reso possibile dal crescente utilizzo di internet nell’ultimo decennio: la comodità del cloud storage risiede nella possibilità di accedere ad un’infinità di dati personali in qualsiasi momento da qualsiasi dispositivo.
Tutto ciò può avvenire poiché, essendo questo un sistema di archiviazione immateriale, è necessario avere in possesso solo un pc/tablet/smartphone e una buona connessione dati per poterne usufruire.
La capacità di memoria in questo tipo di sistema è quasi infinita: per fare un po’ di paragoni lo spazio di un Cloud è di circa un trilione di byte, ossia circa 9 milioni di schede perforate, 500 mila hard disk, 218 milioni di dvd e 8 milioni di chiavette USB.
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